venerdì 21 ottobre 2016

"Sognare il proprio lavoro" di Stefano D'Anna

“Il lavoro si sublimerà fino un giorno a sparire dalle attività umane…
Un giorno, quando avremo bilanciato la nostra psicologia, capiremo che il lavoro è stato per l’umanità una forma di autopunizione, l’effetto di una vulnerabilità. Il lavoro di un uomo, il grado di faticosità, di penosità, di maggiore o minore povertà, la qualità del suo ruolo, misura esattamente la sua divisione interna, è direttamente proporzionale alla distanza che quell’uomo ha da se stesso. Il lavoro è il riflesso di una psicologia differita dal “qui ed ora”, da un tempo verticale; la dipendenza è l’immagine speculare di una mente preoccupata, impaurita, che ancora vive nel senso di colpa, nel dubbio, nell’insicurezza, nel dolore. Il lavoro dipendente è il riflesso di una coscienza di vittimismo... La dipendenza è paura… è assenza di amore….
Tra i pezzi in esibizione alla mostra “Atroci Strumenti di Tortura”, in corso qui a Milano, andrebbe inserita la scrivania, simbolo e strumento di una condizione di schiavitù che non è mai stata abolita, ma che ha solo cambiato pelle.  
Il grado di paura, la distanza che un uomo ha da se stesso, o ignoranza di sé, il suo grado di differimento dal “qui ed ora”, determina la qualità del suo ruolo lavorativo e decide il girone infernale cui deve appartenere. Più questo differimento si riduce, più il lavoro si sublima, fino a diventare “sogno”. Il Lavoro è la negazione, la degradazione del “sogno”. Il lavoro è il “sogno” visto di spalle. Il lavoro è la maschera che noi indossiamo per nascondere il nostro senso di annientamento, il nostro senso di insignificanza… per nascondere la nostra caduta dal paradiso…
In tutte le culture ed in tutti i tempi, il lavoro è stato connotato da fatica ed è sinonimo di costrizione, sforzo, dolore… L’Ecclesiaste indica il lavoro tra le sette malattie che intaccano l’essere. La domanda d’avvio di questo libro dell’A.T. è lapidaria: “Quale valore ha tutta la fatica che affatica l’uomo sotto il sole?”. Nella tradizione giudaico-cristiana, in particolare, lavorare è tuttora il riflesso di una maledizione biblica… è il prodotto di  una condanna… è alienazione, è travaglio…La parola francese travail, il termine anglosassone labour, contengono in modo indissolubile questo significato di sforzo. Così lo spagnolo. Così il napoletano. Lo stesso termine ebraico “amal”, significa letteralmente “faticare”.




Amal/Amar. Anche se “Amal” e “Amare” hanno radici linguistiche lontane, formano un polarismo avvincente, cioè una coppia di estremi destinati a rappresentare due concezioni del mondo: Amal è il lavoro come sforzo, Amar (A-mors) è il lavoro come sogno, come assenza di sforzo.
L’economia è fatta da uomini che amano. Un uomo contempla il cielo.. si sta nutrendo di qualcosa di eterno… Questa è economia. La nostra Scuola crede che amare quello che  si fa e fare solo ciò che si ama sia diritto di nascita di ogni uomo, crede che chi ama, che chi sogna, non lavora e che chi lavora non può sognare. 
Bisogna trasformare il lavoro in “sogno”! Chi sogna ama, chi lavora non può amare… L’assenza di amore, la sofferenza, producono lavoro-fatica…
Chi ama quello che fa, chi sogna, anche se apparentemente sta lavorando per un’organizzazione, in realtà sta lavorando per sé, si sta integrando. Chi fa un lavoro senza amarlo sta lavorando per qualcun altro, si sta danneggiando. Quella che viene chiamata retribuzione è in verità un risarcimento danni per la degradazione fisica, emozionale e mentale prodotta da quella condizione di dipendenza.
Il clochard, in barbone, è l’uomo che vive in un limbo, emarginato in una zona dell’essere in cui non può né amare, né lavorare… Non può né appartenere al tempo né all’assenza di tempo. E’ un uomo che ha abbandonato il mondo del lavoro senza però riuscire ad entrare in quello del “sogno”. Sognare è l’azione di un uomo di responsabilità.. Soltanto i grandi guerrieri, i grandi condottieri, possedevano l’arte del sognare, la capacità di essere effortlessly dreamful.


La gente lavora con fatica ed anche gli uomini più ordinari fanno sforzi immani per tutta la vita. Altri cercano la guarigione di pochi attimi di integrità, di non-lavoro; e per questo attraversano oceani, scalano le montagne più arduo, perché non conoscono l'arte del sognare. Non sanno che sognare è il fare. Bisogna trasformare il lavoro in sogno. La positività e la felicità nel futuro dell'uomo si accompagneranno inevitabilmente ad una progressiva, inarrestabile, riduzione della sua attività di lavoro e ad un declino del lavoro-fatica.
Un'umanità più libera interiormente dalla paura, dal dubbio, da pensieri distruttivi e dalla miriade di emozioni negative che da sempre ne agitano l'animo, non potrà più accettare i ritmi, gli ambienti e la qualità del lavoro di una civiltà che ancora concepisce il lavoro come fatica ed iperattività, che per funzionare ha bisogno, e quindi educa, eserciti di alienati, legioni di fakiri capaci di sopportare, senza neppure più avvertirla, la indicibile dolorosità del dipendere. Le Scuole sono la propaggine fisica di questa psicologia. A sei, sette anni i bambini, come piccoli spartiati, sono inquadrati nell’esercito triste degli adulti.  Ed è osservabile la loro trasformazione. Il gusto del gioco, la freschezza delle impressioni, l’entusiasmo, l’adattabilità, il coraggio, vengono sostituiti giorno dopo giorno con l’apprendimento delle emozioni cosiddette umane: invidia, gelosia, rancore, ansietà, paura, il parlare eccessivo, il nascondersi e il mentire, e quelle deformazioni del viso che formano il repertorio di maschere per la loro espressione. L’ingabbiamento della libertà del bambino, la sua omologazione agli adulti, è un’operazione dolorosa. Si chiama educazione. Nelle scuole di ogni ordine e grado, in tutto il pianeta, i giovani sono esposti ad un unico messaggio educativo globale: l’insegnamento a dipendere. Fin da bambini ore ed ore in un banco per imparare a vivere da prigionieri, senza alcuna aspirazione alla libertà. Un training indispensabile per poter un giorno fare gli impiegati a vita, aggrappati alla ricchezza di altri, ed appartenere di diritto al club degli angosciati aziendali.
La dolorosità, come durante un lungo viaggio lo sferragliare del treno, poco a poco non la sentiamo più, finché diventa per noi tutt’uno con l’esistenza.  La sua presenza diventa una costante naturale, e per assurdo, rassicurante, al punto che abbandonare la dolorosità sarà per l’adulto un’impresa quasi impossibile. Paura e sofferenze sono ringhiere.  Guai a perderle!  E’ più difficile eliminare la più piccola paura dalla propria vita che scalare una montagna.
Occorrono scuole di libertà, di conoscenza di sé… scuole di integrità. La prima caratteristica di una scuola del futuro è quella di eliminare piuttosto che aggiungere. Eliminare vecchie strutture, stratificazioni di ignoranza, di concetti arruginiti, di idee obsolete; abbandonare preconcetti, falsi sentimenti, paure immaginarie ed ogni identificazione con il superficiale, con il mondo delle apparenze. Occorre una scuola che “ricordi”, una scuola con una memoria verticale che indichi la direzione per il “viaggio di ritorno”. Una Scuola del capovolgimento per l’eliminazione della vecchia educazione, per una rieducazione dell’uomo nel nome dell’essere.
"Ho sognato una Rivoluzione: ho sognato una Scuola che educhi una nuova generazione di leader capaci di armonizzare gli apparenti antagonismi di sempre: economia ed etica, azione e contemplazione, potere finanziario e amore"
Da "La Scuola degli Dei di Stefano D'Anna





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